Li incontriamo nei pressi del banchetto dove si vendono le pizze fritte.
Adoro la pizza fritta. Mi ricorda la mia terra, la mia infanzia, le domeniche in cui si andava al mercato delle pulci ad Arzano, la puzza di olio bruciato che impestava l’aria nei pressi del furgoncino del venditore ambulante e mio padre che mi consigliava di aspettare a mordere, perché, se era troppo calda, il ripieno di pomodoro, misto a ricotta e mozzarella filante e incandescente, mi avrebbe ustionato il palato. E così era.
Ne ho avvistata una, appena arrivati, in mano ad una signora, bella, cicciotta, avvolta in una carta per alimenti marrone tutta ‘nzivat. La pizza, non la signora.
Loro sono proprio lì. Vocianti, festanti, che è impossibile non riconoscerli.
Altri italiani finora non ne ho notati. Anche se è la “Festa Italiana” e di sicuro in giro ce ne saranno tantissimi.
Luca si mette in fila per comprare due pizze, io mi avvicino.- Scusate, siete napoletani?
– Sì, perché?
– Pure io sono napoletana.
– Uà!- esclama Alberto.
Giovanni mi guarda. Ha un’espressione beffarda e sorniona -Però ce lo devi dire nella nostra lingua.
Sorrido. – Pur ij song e Napul’.
Alberto esulta di nuovo, Giovanni mi fa – Aspetta. Mi devi dare un’altra dimostrazione. Cantiamo insieme “Che bella cosa…
– …È na jurnata ‘e sol!
– Uè, paisà!
E ci abbracciamo.
Ci si abitua alla distanza, ai paesaggi diversi, alla natura e alle architetture che si stampano negli occhi, imprimendo allo sguardo una maniera diversa di concepire gli spazi; ci si abitua ad ingredienti e ricette mai pensati, al coraggio di sperimentare sapori di frutti dai nomi e dalle forme strane; e ci si abitua ad un nuovo modo di dire buongiorno e buona notte, ai baci sulle guance partendo da sinistra, e non da destra, che, se non fai attenzione, ti scappa un bacio sulle labbra.
Ma quando ti capita di incrociare qualcuno le cui parole fanno eco al suono dei tuoi pensieri (perché è inutile sforzarsi: il pensiero rimane in italiano), la naturalezza con cui ci si sente parte di qualcosa che va oltre un confine disegnato su una cartina, si stempera nell’entusiasmo di sentirsi altrettanto appartenente ad un luogo specifico e più delimitato, a quella porzione di mondo dove sai di aver lasciato le tue vere radici, perché quelle nuove, quelle che ogni giorno senti più sicure e forti, in fondo non sono altro che talee, generatesi dai rami che, con volontà e con forza, affondi nella nuova terra, per ricostituirti, per rinascere o semplicemente per rigenerare quelle parti di te che hai lasciato indietro e di cui sai che manchi.
“Non sono un ateniese o un greco, ma un cittadino del mondo”, diceva Socrate e potrei far mie le sue parole (pure perché non sono nata ad Atene, né ci sono mai stata). Ma forse Socrate non aveva viaggiato molto, poiché, se è sano e giusto, in ogni circostanza e luogo, sentirsi cittadini del mondo, è altrettanto giusto avere ben presenti le proprie origini.
Più ci si allontana e più si ha bisogno di un luogo da ricordare, da rispettare, da amare. Di un luogo a cui poter e voler tornare.
A patto di non trascendere, dal senso di appartenenza, verso il campanilismo, atteggiamento che mi capitò di verificare l’anno scorso in una donna.
– Ah, sei napoletana?- mi aveva chiesto, dopo che ci eravamo riconosciute come italiane e fatte domande sulla reciproca provenienza.- Ma di Napoli Napoli? Perché io, in realtà, non sono proprio napoletana, io sono della provincia di Salerno.
– Io sono di un paesino che dista trenta chilometri da Napoli- avevo precisato.
– Ah, e allora anche tu non sei napoletana originale!-aveva aggiunto, manco io avessi dei manici al posto delle braccia e Luigi Vuittone scritto in fronte.
Luca, nel frattempo, ha preso le pizze e mi raggiunge. Le note di Torna a Surriento, rimbalzano sui rami delle mangueiras che incorniciano la strada.
Giovanni è di Pollena, Alberto di Bagnoli e io sono di Cicciano. Ma qui a Belo Horizonte, siamo napoletani, siamo campani, siamo italiani, siamo europei.
Insomma, siamo cittadini del mondo.