Le coccinelle volano


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Puoi farmi un favore? 

– Che stai facendo?

– Niente. Piove ancora e io non riesco a fare niente. Sono triste.

Anni fa, la pioggia mi piaceva. Forse mi piace ancora ed è con quella brasiliana che ho problemi di convivenza. Perché per me il Brasile rappresenta ed è rappresentato dal sole e, quando piove, peraltro per venti giorni di fila, tutto diventa grigio, opaco, spento. La pioggia brasiliana è contronatura. Non dovrebbe mai piovere in Brasile. 

– Non esci un po’ nemmeno nel pomeriggio? 

– Non lo so. Penso che…Aspe’, ho un’altra chiamata sotto.

Dopo due minuti.

– Oi, ma ci sei ancora? 

– Sì. Chi era?

– Devo andare a prepararmi. Esco! Era C. e mi ha chiesto se posso farle un favore.

– Che favore? 

– Ah, niente di che. Mi ha detto che a Casa Fiat oggi girano un servizio sulla realizzazione del presepe e, poiché io ho partecipato anche l’anno scorso, mi ha chiesto se posso andare a farmi intervistare.

– Che cosa?! E tu che le hai risposto? 

– Le ho risposto di sì, ovviamente. 

– Ma ha smesso di piovere?

– No.

– E tu non eri triste?

– Sì, ma che c’entra. C. è un’amica. Posso mai negarle il favore di farmi intervistare dalla televisione statale?

https://www.google.com.br/url?sa=t&source=web&rct=j&url=http://globoplay.globo.com/v/5473881/&ved=0ahUKEwiCt_mXpMbQAhVGx5AKHdAbDQUQFggaMAA&usg=AFQjCNFZECl61h2UTn4w_nvHht_2KdWIXw&sig2=PsS2Kuwd-aCZF7Y_9OYRaw


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La fede di Cristina 

– Ci credi che Nostro Signore Gesù ti guarirà con la forza del suo amore?

No, non ci credo. Ma non posso dirglielo così bruscamente. Dovrei spiegarle che essere atea per me non è una scelta, proprio come non era una scelta essere single fintanto che lo sono stata. Perché l’amore e la fede, secondo me, hanno tanto in comune e non puoi fingere di provarli. Mica ti metti con qualcuno e fai finta di starci bene solo perché non hai voglia di stare da solo? Ok, alcune persone lo fanno, allo stesso modo in cui molte persone che si professano credenti non lo sono affatto o, comunque, non per davvero. Molte lo sono per convenzione, perché è così, perché credere è molto più facile che non credere.

E allora chi ha creato l’universo? E che ne so? Ma la mancanza di risposte non mi vale come incentivo alla fede.

E allora a cosa ti aggrappi quando stai male? Alle ringhiere, ai braccioli del divano, alle parole dei medici e agli analgesici sperando che facciano effetto.

La religione non potrebbe mai essere per me un tappabuchi alle risposte che non mi so dare, né un pronto soccorso quando non c’è niente altro da fare. E mi piace pensare che chi crede, chi crede davvero, non lo fa per questi motivi, ma per un forte sentimento di fede che trascende l’umano interesse.

Cristina crede. L’ho capito subito e non solo perchè ogni volta che ci vediamo mi recita un passo della bibbia. 

È una delle prime persone che ho conosciuto qui in Brasile. Mi infilai nel suo negozio per caso, durante uno dei mie giri di ricognizione per Belo Horizonte, qualche settimana dopo essermi trasferita. Da allora, almeno una volta al mese, passo sempre a salutarla.

Cristina è un personaggione e quando ci abbracciamo mi immagino sempre di nuotare in un soffice mare di Nutella; Cristina è gentile e, da quando ha il mio numero di telefono, tutte le mattine mi manda un messaggio vocale di buongiorno; Cristina mi vuol bene e, anche se non me lo chiede mai, si preoccupa sempre di  come sto.

Ieri, dopo che l’avevo già salutata e mi accingevo ad andare via, mi ha detto- Aspetta. 

Ed ha cominciato a rovistare nella sua borsa finché non ne ha tirato fuori una boccetta di olio giallo. Se l’è stretta tra i palmi, ha mormorato una preghiera e me l’ha porta.

– Ci credi che Nostro Signore Gesù ti guarirà con la forza del suo amore?

No, non ci credo. 

Ma credo nell’amore, nelle infinite possibilità di fare e ricevere del bene.

Per questo, stringendole le mani, le ho risposto – Sì.

Perché alla forza e all’attesa e alla speranza che leggo negli occhi di Cristina, nel mentre si offre di donarmi un po’ della sua fede, ci credo anch’io. 


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Partire è un po’ morire 

Avevo una cugina più grande. In realtà,  ne avevo più di una. In realtà, ne ho ancora parecchie di cugine più grandi di me e non capisco perché mi viene da usare l’imperfetto. Comunque sia, questa cugina più grande di me, che non vedo e non sento da anni (e magari proprio per questo il nostro rapporto mi sembra imperfetto), aveva un diario. In realtà, ne aveva tanti di diari e giuro che questo è l’ultimo in realtà perché se no, ad essere realista, il post non finisce più. 

Sul diario di questa mia cugina più grande c’era scritta una frase. La frase diceva “partire è un po’ morire”. 

Avevo una decina d’anni quando la lessi. 

– Che significa? 

– Che quando si parte si muore un po’. 

– Non capisco. 

– Non c’è niente da capire. Partire è un po’ morire. 

– Io, però, quando parto per le vacanze non mi sento un poco morta, anzi, mi sento più viva.

– Credimi. Quando si parte, si muore sempre. 

Dall’alto della sua grandezza, mia cugina più grande sapeva essere molto perentoria e saggia, per cui smisi di contraddirla ed accettai per buona la sua sentenza. 

Non sono una viaggiatrice. Anche se da tempo ho superato l’associazione delle partenze alla morte, che da quella conversazione mi era derivata (con tutte le volte che sono partita, sarei un po’ morta da un pezzo).

Ho difficoltà a sentirmi a casa e in virtù di questo mi sento a casa ovunque. Ma non credo che la facilità con cui chiudo tutte le mie cose in due valigie e vado via, faccia di me una viaggiatrice. 

Eppure, questo tag di svirgola mi ha fatto realizzare che di viaggi ne ho fatti parecchi. Probabilmente, più numerosi e più lunghi, in termini di distanza, di quanto mi sarei mai aspettata e augurata per me.

Sì, perché questo è un tag, creato da Iris & Periplo Blog. Anche se non ho utilizzato la foto che c’era sopra, che potrete rintracciare cercando il tag #wanderlusttag.

Di seguito, le mie risposte alle 10 domande previste e no, non nominerò almeno 3 blog. Ma come al solito, chiunque voglia partecipare è libero di aderire. 

1. Per prima cosa: dove siete stati finora?

Sono stata in Italia, per circa trentaquattro anni, ma non per vacanza, cioè non sempre, bensì perché ci sono nata. Nel frattempo che stavo in Italia, sono stata spedita da mia madre per cinque giorni in Svizzera, poi per due anni di fila ho trascorso il ferragosto a Budapest, poi sono stata in Inghilterra per la nascita di mia nipote, poi sono venuta una settimana in Brasile, poi sono stata in Indonesia e negli Emirati Arabi, poi sono andata a congelarmi qualche giorno a Berlino e alla fine mi sono trasferita in Brasile. Dal Brasile, sono andata in Argentina e in Paraguay, sono tornata in Italia, sono riandata in Inghilterra e poi nuovamente in Brasile. 

2. Qual è la città o paese più bello dove siete stati?

Ho avuto la fortuna di visitare luoghi incantevoli, ma le cascate di Iguaçu sono una vera meraviglia. 

3. Siete stati più di una volta nello stesso posto o preferite visitare ogni volta un posto nuovo?

Mi piace scoprire posti nuovi, ma torno con piacere nei luoghi in cui mi sono sentita felice.

4. Consigliatemi il miglior locale (ovunque nel mondo) dove siete stati a mangiare.

Bacon Paradise, il paradiso del fat food di Belo Horizonte. Ma se siete vegani e non mangiate bacon, allora il mio consiglio è un posto qualunque nell’isola di Bali. Che tanto si mangia quasi sempre riso e niente. Buono, ma comunque riso e niente. 

5. Siete per le vacanza al mare, in montagna o per le città?

Sono per le vacanze. Mare, città, montagna, lago, deserto. Dovunque. 

6. Qual è il souvenir che non mancate mai di portare a casa?

Cerco sempre di riportarmi qualcosa da mangiare, a patto che non crei problemi in dogana. Insieme a magneti, penne, tazze e tantissima chincaglieria.

7. Nella vostra valigia cosa non manca mai?

Nella mia valigia non manca mai niente. Anzi, dovrei imparare a viaggiare più leggera. 

8. In quale luogo già visitato ritornereste volentieri?

Tornerei di nuovo a Budapest, al Sziget, se tornassi ad avere di nuovo venticinque anni.

9. Ed invece in quale posto già visitato non tornereste?

 In Svizzera, a Natale, ad Einsiedeln. Mai più. 

10. La meta del vostro prossimo viaggio?

Più che ad un prossimo viaggio, mi appresto ad un prossimo ritorno di tre settimane. In Italia.


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Tirolese 

È difficile prevedere o intuire cosa c’è dall’altra parte. Per scoprirlo bisogna muoversi, scegliere, ma non è così semplice. 

Stare fermi è confortevole. Ti dà l’illusione che tutto possa restare uguale, anche se uguale significa male. 

La soluzione è una libertà che si snoda appesa al filo di una tirolese.

È sufficiente un passo.

Nemmeno. 

Basterebbe spingere un po’ più avanti un piede, con la punta saggiare l’aria, con la suola sperimentare il vuoto e, fingendo di volerlo calpestare, lasciarsi andare. Muoversi come saltare, scivolare.

E volare.

Persino i bambini lo sanno fare. 


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Tu non hai fame? 

La brezza del mare di agosto mi stava bruciando la pelle e seccando la gola. E poi avevo fame. Tanta fame.

“Andiamo via?” gli chiesi e Michele non si lasciò pregare, sebbene intuissi che avrebbe avuto piacere a rimanere disteso al sole un altro po’.

Ci infilammo i vestiti sui costumi ancora umidi, raccogliemmo gli asciugamani e ci avviammo mano nella mano verso la strada, ciascuno trascinando a suo modo il passo, nella battaglia contro la sabbia bollente che si infilava nelle ciabatte.L’auto parcheggiata poco distante era un forno già a guardarsi.Ben più appetitose erano le immagini, seppur stilizzate, raffigurate sull’insegna della rosticceria di là della strada.

Avevo fame. Tanta fame.

Al punto che avevo l’impressione di vedere pizze, panini al prosciutto e leccornie ovunque.

Puntai gli occhi sulla porta della rosticceria. Un locale piuttosto scialbo, per nulla invitante, se non nell’insegna, e stranamente desolato.

In spiaggia si era in molti e la città era invasa dai turisti. Eppure nessuno faceva tappa in quel posto.

Michele mi tirò per il braccio. “Cos’hai?”

“Ho fame.” gli dissi. “Ho tanta fame”.

“Bene, perché ne ho anch’io”. E dal modo malizioso in cui mi sorrise ebbi l’impressione che non ci stessimo riferendo esattamente agli stessi appetiti.

“Ti va di entrare in quella rosticceria?”

“Quale?”

“Quella lì”. E con la mano gli indicai il locale sull’altro lato della strada.

“Bah… Non sembra un posto invitante. Su, monta in macchina e cerchiamoci un vero ristorante.”

“No dai! Ho fame davvero, al punto che se non mangio qualcosa svengo. E poi lì fanno i polli allo spiedo. Vedi l’insegna? E se non ricordo male anche tu ieri sera ne avresti mangiato volentieri uno.”

“Ok, ok… Non insistere, ti accontento. Tanto di sicuro non troveremo nulla di nostro gusto.”

“Pessimista!”

“No no, mia cara. Solo realista. E tu sei troppo buongustaia per accontentarti del primo pollo che ti capita a tiro.”

“Ne sei davvero convinto?” replicai, strizzandogli l’occhio ed entrambi ridemmo del nostro umorismo.
Sotto il sole a picco attraversammo la strada in un momento in cui non transitava, né si vedeva in lontananza alcuna automobile.

Sentivo che più mi avvicinavo e più ero attratta da quella rosticceria, proprio come una calamita che non possa fare a meno di accostarsi al metallo.

Quando fui abbastanza vicina, vidi che la porta a vetri dava su un ampio locale illuminato a giorno. Non c’erano ombre, solo luce, eppure nessun bagliore trapelava all’esterno.

E i prodotti esposti  non lasciavano dubbi. Lì dentro c’erano i migliori cibi che avessi mai visto.

Guardai Michele con fare impaziente, invitandolo ad aprire la porta. Non capivo perché non fosse entusiasta quanto me di tutto quel bendidio verso cui ci stavamo fiondando, ma prima che potessi dirgli qualcosa, la porta si aprì come cedendo ad un’invisibile spinta.

“Oh! Mi ha fatto prendere un  colpo!” esclamai rivolgendomi all’uomo che, dal nulla, improvvisamente ci si era parato di fronte.
Ad una prima occhiata, lo si sarebbe scambiato per un signore di circa sessant’anni. Ma solo ad una prima occhiata, perché a guardarlo meglio, ci si sarebbe resi conto che, sotto la sottile ragnatela di rughe che incorniciava i suoi lineamenti, se ne nascondevano altri, ben più giovani. Quasi infantili.

Sarà un effetto imputabile ad un gioco di luci e ombre, pensai, sebbene non molto convinta.

“Prego signorina, entri pure.” Si fece di lato e con un ampio movimento del braccio mi fece mostra del suo negozio, come un sovrano che si vanti del proprio regno.

Avanzai senza alcuna indecisione. Michele, al mio fianco, non appariva altrettanto sicuro.

Si chinò a sussurrarmi nell’orecchio. “Tesoro, per favore, andiamo via”.

“Ma scherzi? Hai visto quelle lasagne? E la porchetta? Oddio! Rimarrei qui dentro in eterno!”

Intanto l’uomo era andato a posizionarsi dietro il banco e ci guardava con uno sguardo ambiguo. L’impressione era che ci stesse valutando… non saprei ben dire. Del resto, in quel momento non avrei certo potuto pensare che di lì a breve avrei guardato le persone al suo stesso modo e con il suo stesso scopo.
La consapevolezza giunse improvvisa. Inizialmente provai terrore, orrore, disgusto puro. Ma fu solo un momento, perché a poco a poco tutto mi fu piacevolmente chiaro. Guardai l’uomo. Gli sorrisi e mi fece un cenno d’assenso.

Avevamo siglato il nostro patto.

Un profumo di spezie mi pizzicò il naso, facendomi starnutire. Allungai la mia mano verso quella di Michele, ma trovai il suo braccio e mi accorsi che aveva la pelle d’oca.

“Tutto bene?” gli chiesi.

Ad essere sincera gli feci quella domanda per pura retorica.  Mi interessava ben poco di come stesse. Provavo un implicito piacere a constatare il suo malessere. Tanto meglio.

Gli strinsi il polso.

“Andiamocene, per favore”. Sudava. Grosse gocce cominciavano ad imperlargli il viso. Forse stava addirittura piangendo. E’ possibile che cominciasse a presagire il suo imminente destino, ma non ne ho certezza.

Lo invitai a stare zitto.

“Non abbiamo ancora preso nulla, tesoruccio. E tu lo sai che ho fame. Non vorrai mica che resti a stomaco vuoto?” Un rumoroso brontolio della pancia convalidò la mia affermazione.

Mossi due passi avvicinandomi al banco, dalla parte in cui erano esposti i contorni. Michele rimase lì dove lo avevo lasciato, immobile sotto il lampadario più luminoso. Il suo sguardo mi seguiva con rassegnazione e tristezza.

Se avessi letto nei suoi occhi un accenno d’accusa probabilmente sarebbe andata in modo diverso. L’incantesimo si sarebbe spezzato o… chissà…

In un certo senso posso dire che se l’è cercata. O, almeno, che non ha fatto nulla per evitare quello che stava per capitargli.
“Posso ordinare?” chiesi all’uomo.

“Se sa già quello che vuole ed è pronta a farlo, certo.” E dicendolo, mi sorrise.

“Sono pronta.”

“Bene. Allora faccia pure.”

“Dunque, voglio un contorno di melanzane alla griglia e patate fritte e… UN POLLO. Il primo pollo che mi capita a tiro.”
Le parole uscirono dalle mie labbra come una nenia. Il sortilegio funzionò e dal pavimento, nel punto in cui era fermo Michele, emerse un enorme spiedo che gli attraversò le viscere, impalandolo e uccidendolo sul colpo. Lo spiedo prese a ruotare in verticale e contemporaneamente la luce ed il calore emessi dal lampadario sospeso su quella che fino a pochi istanti prima era stata la sua testa, si potenziarono cuocendolo in breve tempo al punto giusto.

Mi avventai sulla sua persona, divorandone le carni che a grossi pezzi strappavo via dalle ossa.

Cominciai dagli arti e nelle cosce scoprii il suo sapore migliore. Poi passai all’addome, provando particolare gusto a masticargli il cuore.

Era delizioso, non comparabile ad alcuna pietanza gustata in precedenza. Più mangiavo, più ne volevo. Più mangiavo, più mi sentivo forte, diversa, invincibile.

A malincuore, ingoiai  l’ultimo boccone. Ero sazia, ma non potei fare a meno di pensare che avrei fatto meglio a scegliermi un pollo più grasso.

Mi stavo leccando le dita quando lo scenario improvvisamente mutò.

Non ero più nella rosticceria. Nessuna luce, nessun profumo, nessuna vetrina. Solo squallore e buio.

Mi rivolsi al bambino che finalmente riuscivo a vedere nelle sue reali fattezze. Un bambino con l’espressione tremendamente crudele.
“E’ questo ciò che ha visto Michele ed è così che ti ha visto, vero?”

Assentì con il capo.

“Ed è questo anche quello che ha visto tua sorella quando l’hai trascinata qui, perché credevi che questa fosse una pasticceria e tu avevi voglia di una fetta di torta alle fragole.”

“Esatto” mi rispose. “Ed è anche quello che ha visto la moglie dell’uomo che gestiva il “negozio” prima di me. Lui però aveva voglia di una fiorentina e, guarda caso, lei era nata a Firenze.” Mi fece l’occhiolino e scoppiò a ridere.

Risi insieme a lui.

“Cosa farai adesso?” gli chiesi.

“Non so. Dalla mia ho la vita eterna e la possibilità di fare ed essere tutto ciò che voglio. Non credo che mi annoierò.”

“Ne sono convinta. E… grazie per avermene fatto dono.”

“Prego. L’ho fatto per te, ma l’ho fatto anche per me. La nostra condizione beata ha un prezzo, come tutte le cose. Trova un’altra anima. Un’anima che, come le nostre, non si faccia scrupoli a nutrirsi dei propri vizi per soddisfare la propria felicità. Trovala e potrai lasciare questo posto e goderti l’eternità come vuoi. Sembra facile, ma, credimi, noi cattivi siamo una razza in estinzione. E l’esercito dei demoni rischia di indebolirsi per mancanza di adepti.”

“Quindi adesso sono un demone?”

“Un demone, un demonio, un’entità oscura… in verità non esiste una definizione esatta.”

“Ho una curiosità. Ma le anime di quelli che mangiamo che fine fanno?”

“Non lo so e non me lo sono nemmeno mai chiesto. Forse vanno in paradiso come martiri sacrificati sull’altare della nostra giusta causa. Comunque sia, ti consiglio di non pensarci e di goderti l’immortalità.”

“Puoi scommetterci!” gli dissi.

Lo abbracciai forte e, pian piano, il suo corpo perse consistenza, dileguandosi come un fantasma nel buio.

 

Tutto questo è successo circa un mese fa, anche se, nella mia nuova condizione, mi è difficile dare una giusta dimensione al tempo.

I giorni trascorrono veloci e greggi di anime passano davanti al “negozio”. Un paio di volte mi è sembrato che qualcuna avesse le caratteristiche giuste ad essere “arruolata”, ma prima di scegliere a caso, voglio essere davvero sicura.

A proposito, tu non hai fame?


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La cerimonia di sepoltura delle cose inutili 

“Seguimi” mi dice mia madre e i suoi passi si muovono lungo un rettilineo, tracciato dai margini di palazzi che, contrariamente a quanto mi sarei aspettata, sono rimasti gli stessi di vent’anni fa, quando con le compagne di scuola si veniva a fare le capriole sugli archetti posti al margine dei marciapiedi. 

La desolazione, nel mentre mi chiedo dove stiamo andando, cede il posto alla curiosità dovuta ad un improvviso brusio di voci. Allora alzo gli occhi che tenevo bassi. Attraverso la linea sottile concessa allo sguardo dalle palpebre troppo strette per la luce, attraverso una calca di persone comparse dal nulla, vedo te.

Tu mi sorridi, alzi una mano, saluti. Ed è facile leggerti addosso l’emozione che sempre provavi, quella che non ho mai compreso, ma che mai mi hai negato, della gioia che sembrava coglierti, improvvisa, quando m’incontravi.

Io ti ignoro, faccio una smorfia, ti escludo.

Ed è di nuovo facile leggerti addosso l’emozione che sempre provavi, quella che non ho mai compreso, ma che mai mi hai negato, della tristezza che sembrava coglierti, improvvisa, quando mi allontanavo.

Qualcuno mi spintona, la gente si accalca e dove c’erano i palazzi compare un baratro profondo.

“Che succede, mamma?”

“È la cerimonia di sepoltura delle cose inutili” 

E ad uno ad uno gli estranei che mi circondano si avvicinano al bordo e lanciano oggetti nel vuoto.

Allora mi guardo intorno e ti cerco. Un sorriso, penso. Avrei almeno potuto sorriderti. Ma quando finalmente, con lo sguardo, ti trovo, sei tu che stavolta mi ignori, fai una smorfia, mi escludi.

Il terreno cede e, prima che possa rendermene conto, inutile, sto svanendo anch’io.


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Per caso

Si incontreranno per caso, così come per caso si sono incontrati la prima volta, quella sera che l’aria aveva un respiro pesante e lasciava addosso aliti di gas di scarico e buio appena nato.

Lui, un Javier Bardem dall’espressione mite, seppur stanca; lei, semplicemente stanca. 

Per ragioni diverse, mossi gli sguardi, si erano quindi intercettati.

Un sorriso, hai da accendere, io no ma chiedi a lui, non importa. 

Con estrema naturalezza, si erano scivolati l’uno accanto all’altra e, quando si erano stretti la mano, quel piacere dichiarato per circostanza, per una volta, era sembrato sincero. 

A lui era parso speciale trovare quella donna con cui parlare; a lei era parso speciale semplicemente trovare qualcuno che le volesse parlare. 

Si portavano addosso entrambi sacchi di solitudine riempiti per abitudine e poco coraggio a scrollarsi di dosso le abitudini. 

Forse per questo avevano provato l’immediata sensazione di piacersi. Persone giuste al momento giusto, che se fosse stato errato le avrebbe rese altrettanto errate. 

Lui le lasciò il suo numero, lei gli disse mi farò sentire. 

Il giorno dopo gli inviò un messaggio. Lui le rispose.

Ci rivediamo domani? Perché no? Ma non specificarono né l’ora, né il luogo. 

Lui non si fece sentire, lei non lo cercò. Come se niente fosse mai successo, come se nient’altro potesse ancora succedere. 

Almeno finché, di nuovo, non si incontreranno per caso.


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In palmo di mano 

Se non avesse fatto l’insegnante, avrebbe fatto lo psicologo, lo psicoanalista, il terapeuta, insomma si sarebbe fatto pagare per ascoltare, più che per farsi ascoltare. Non ce lo disse mai apertamente, ma noi lo avevamo capito e cominciammo ad approfittarne. 

Le mattine in cui avevamo lezione con lui, erano frequenti conciliaboli con dialoghi di questo genere.

– Ci vai tu?

– No, dai, io ci sono già andata settimana scorsa.

– Vacci tu, Paole’, che hai i genitori divorziati. 

– Ma tu non ti sei mollata col ragazzo?

– No, non posso far morire mia nonna un’altra volta. 

– Robbie Williams che ha lasciato i Take That è un buon motivo? 

– Vabbè, ho capito, ci vado io.

Praticamente, tutte le volte che avevamo lezione col prof di italiano, anziché accordarci su chi si sarebbe offerto all’interrogazione, cercavamo di decidere chi gli avrebbe sottoposto il proprio problema. 

Lui non si tirava mai indietro. Era anzi palese, quanto lo lusingasse assurgere al ruolo di professore amico e confessore. Anche a costo di perdere due ore di lezione. Cosa che costituiva, ovviamente, il nostro vantaggio. 

Io non avevo grossi problemi da sottoporgli. Sì, ero follemente innamorata e non corrisposta, cosa che, all’epoca, era per me una gran tragedia, ma questo tipo di situazione portava via al massimo cinque minuti di incoraggiamento. E nemmeno ero capace di inventarmeli i problemi. Ad ogni modo, in un paio di occasioni, gli chiesi anch’io consiglio. E, no, non funzionò. Il mio amore rimase imperterritamente non corrisposto. 

Oltre a ritenersi un ottimo psicologo, il mio prof di italiano del liceo si riteneva altresì un discreto chiromante. 

La prima mano che lesse fu quella di C. (iniziale del nome e pure del soprannome).

Dicono che le amicizie del liceo durano tutta una vita. Posso confermare che accade lo stesso con le inimicizie.

Io e C., altrimenti nota come la c., ci detestavamo. Non riporterò i motivi, dal momento che, anche a distanza di anni, ancora la ritengo una persona che in nessun modo merita la mia attenzione. Sarà sufficiente dire che, per me, la c. rappresentava la quintessenza della meschinità (e non solo perchè era capace di svenire a comando pur di farsi equiparare, ingiustamente, i voti ai miei).

Sul palmo della mano sinistra di C., il prof lesse e profetizzò una vita lunga e bellissima. Dopo di lei anche altri miei compagni di classe offrirono la mano al prof, per farsi svelare un po’ di futuro. In fila con loro, anch’io.

Per tutti, il mio professore di italiano ebbe parole positive. Non ricordo nei dettagli, ma nessuno si lamentò. 

Sarà che io ero l’ultima, sarà che il prof si inventava tutto e arrivato a me aveva esaurito il repertorio, sta di fatto che, quando guardò la mia mano, fece una brutta faccia, bruttissima, e disse- Non posso dirti quello che vedo.

Lo implorai, lo supplicai. Era inamovibile. 

– Che mi succederà? Avrò una vita brutta? Morirò presto? 

Niente. Non volle dirmi niente.

Non credo negli oroscopi, non mi fido dei maghi, non stimo i cartomanti e non penso che il futuro compaia nelle palle di vetro. Eppure, la curiosità di scoprire quali segreti serbasse la mia mano, una sera di alcuni anni dopo, durante una sagra di paese, mi convinse a lasciarmi scrutare il palmo da una giovane donna vestita da gitana.

Evito di riportare ciò che mi “rivelò”. 

Non me ne sono mai lasciata condizionare, convinta che, se ci portassimo davvero scritta la vita in palmo di mano, le nostre scelte e la nostra volontà si svuoterebbero di senso, privandoci della possibilità di attribuirci i meriti e pure i demeriti, le soddisfazioni e anche le recriminazioni. 

La mia vita è nelle mie mani, ma non intrappolata nelle linee.

Ciononostante, ancora mi ricordo di quel pronostico sciagurato. 

Me ne ricordo quando le cose vanno malissimo, ma soprattutto quando, nonostante tutto, riesco a cavarmela, a trarne qualcosa di buono e ad essere felice. 

Perché, se a quindici anni mi fosse stato detto che avrei avuto una vita meravigliosa, probabilmente non mi sarei mai impegnata a renderla tale. Al contrario, la garanzia di una vita di merda mi ha sempre incentivata a non mollare, a sovvertire le situazioni, a riscrivermi il destino a mio piacimento. E pure se non sempre ci riesco, pure se certe tragedie sono e rimangono tali, mi piace continuare a provarci. 

In fondo, sono viva per questo. 


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Veloce come la pioggia che cade

Quando smise di piovere, l’aria si riempì di un odore di polvere e di elettricità ad alto voltaggio. Probabilmente, di lì a poco, una nuova scarica di acqua si sarebbe precipitata giù dal cielo, intervallata da lampi di luce gettati a caso, dal caso, a trapuntare l’orizzonte. 

Ma a Cecilia non importava affatto cosa sarebbe accaduto in seguito. Ripensandoci, si sarebbe resa conto che in quel momento nessun pensiero sarebbe stato in grado di tenere testa all’impulso che, partito dal cuore, si era irradiato veloce verso la pancia, per scivolare poi giù, lungo le gambe fino a raggiungere i piedi. 

Ebbe solo il tempo di abbassare l’ombrello e scrollare via le ultime gocce, perché, nel mentre lo chiudeva, stava già correndo. 

La percezione della realtà circostante è diversa a seconda della velocità con cui la si osserva. Quando si è fermi o si passeggia, la sensazione è quella di essere perfettamente ancorati a ciò che si ha intorno, di esserne parte, anche quando si è in un posto assolutamente estraneo; ma quando si corre, che sia in auto, in bici o sulle proprie gambe, tutto si allontana, tutto fugge via e ci si può sentire stranieri anche semplicemente scendendo di corsa le scale della propria casa.

L’abitudine di uscire tutti i giorni alla stessa ora, era recente e legata ad un desiderio inespresso, ma non per questo meno forte, di appurare quanto fossero poche le persone che condividevano il suo apprezzamento per la solitudine ed il silenzio dei quartieri residenziali nell’ora di punta; l’ora in cui la gente che conta occupa gli uffici, bestemmia contro il traffico o accompagna i figli a fare sport; l’ora in cui le strade vuote sembrano esser state disegnate come mero ornamento di una scenografia fuori dalla quale non si arriva in nessun posto. 

Cecilia correva e ad ogni incrocio diventava più veloce. Le pozzanghere non erano un ostacolo, al contrario, era quasi divertente centrarle e smuovere la staticità dell’acqua, restituendo alla pioggia accumulata nei solchi e nei dislivelli della strada, un ultimo guizzo di vivacità e movimento. 

Il quartiere che aveva scelto quel giorno era tra quelli più ricercati della città, un connubio di palazzi a vetri e aiuole in fiore, portinerie di lusso e citofoni di ottone. Persino gli alberi, piantati a distanza regolare, ogni suoi tre balzi, oltre che alti, sembravano altezzosi e arroganti. La visione laterale, sfuocata dalla corsa, gliene forniva un’immagine approssimativamente paragonabile a quella di severe sentinelle poste al margine della zona di guardia. 

Per nulla intimidita, Cecilia correva. Non era stata una scelta e l’impulso improvviso mal si conciliava con la sua tenuta neanche lontanamente sportiva. I jeans troppo stretti le impedivano di fare passi troppo lunghi, le ballerine poco si adattavano al fondo scivoloso su cui si sforzava di rimanere in equilibrio, la borsa tenuta stretta contro il fianco sinistro la costringeva spesso a rallentare per non sbilanciarsi. Eppure il senso di libertà e incoscienza superavano di gran lunga l’impaccio.

Non si sentiva ridicola e non soltanto perché era certa che nessuno, in quel momento, la stesse osservando. Non lo si sarebbe sentita nemmeno se avesse avuto mille spettatori.

Il fiato corto, lo sforzo, le fitte che cominciavano a farle dolere i fianchi erano un prezzo di poco conto.

Quando finalmente decise di fermarsi, il calore accumulato dal corpo, in contrasto con il fresco lasciato dalla pioggia, la fece rabbrividire. Gocce di sudore le imperlavano le tempie. Si ricordò di aver usato l’ultimo fazzoletto di carta il giorno prima, probabilmente alla stessa ora. 

Fece quanto di meglio poteva, asciugandosi la fronte con il dorso delle mani. Poi si ravvivò i capelli, ma, dentro, il cuore che per dieci minuti le aveva mandato in circolo solo adrenalina, riadattandosi al ritmo naturale, piuttosto che ravvivarla, le ricordò che, per quanto simili siano, per sapore, lacrime e sudore, il sale delle prime lascia tracce che nessun fazzoletto, asciugandole, può cancellare. 

– Cerca di volerti bene.

– Tu te ne vuoi? 

– Non è questo il punto. 

Invece sì che era un punto. Non c’era bisogno che aggiungessero altro. Un punto senza virgola, che non è esclamativo, tanto meno interrogativo. Un punto senza e accapo. Un punto e fine della storia. 

Cecilia lo aveva capito ormai da tempo. 

Non tutte le storie finiscono in un momento esatto. Come i motori, alcune, prima di spegnersi, lanciano vari segnali, cui, per ostinazione e voglia di andare avanti, non si dà mai la giusta importanza. 

Ma quel finale, quel tipo di finale mai lo avrebbe immaginato.

Una goccia cadde a bagnarle il naso. Alzando la testa, constatò che non aveva ripreso a piovere, sebbene il cielo lasciasse indizi che mancava poco ad un altro temporale. Era solo una delle gocce sfuggite alle foglie del platano (o qualunque altro tipo di albero fosse) sotto cui si era fermata.

Col tempo si sarebbe ripresa, sebbene la parola più difficile da digerire fosse proprio quella. 

Tempo. 

Com’è il tempo? Da quanto tempo! Ce l’hai un po’ di tempo? Adesso non ho tempo. Ormai non è più tempo. Chissà se verrà mai il tempo… 

Si parla di tempo quando non si ha nulla da dire o nulla da aggiungere. Si menziona il tempo, per lo più a coloro con cui non vorremmo trascorrere il tempo. 

Un’altra goccia stavolta le scivolò lungo la guancia, ma le bruciavano gli occhi e seppe per certo, anche senza guardare in alto, che non era pioggia, nè dal cielo, nè da un ramo. Era una lacrima. 

Lo stesso impulso partì dal cuore, si irradiò veloce verso la pancia e scivolò poi giù, lungo le gambe fino a raggiungere i piedi. 

Riprese a correre, con più forza, con più tenacia, con più ostinazione. Non c’era tempo, non c’era paesaggio, non c’era legame, non era se stessa. Una ragazza qualunque, veloce, aliena e supersonica, lontana da tutti e irraggiungibile. 

Corse senza guardare, corse con gli occhi chiusi. E quando il suono del clacson la riportò alla realtà, come un allarme lanciato a disattivare l’esplosività dilaniante degli ultimi suoi pensieri, era ormai troppo tardi. 


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Paraclausithyron 

Una sigaretta accesa per distruggermi i polmoni era il chiaroscuro lanciato dalle labbra alle cosce, tramite le mie dita molli, per guardare meglio l’orizzonte. Respiravo a fatica, ma ero così felice che quattro lune e una stella cometa brillavano sullo sfondo della mia prospettiva ubriaca. Dietro, dove le montagne si piegavano ad abbracciare i brandelli di cielo sfuggiti agli squarci delle nuvole, il silenzio dava l’assenso a tutto quanto il mio cuore diceva. Dentro, quando la cicca era abbastanza consumata e corta da intiepidire le falangi, il paesaggio circostante era metaforicamente lo stesso, ma asimmetricamente disposto.

Quelle sere, in cui ogni gesto si inseriva in un rituale insolito, ma ben collaudato e di cui ormai ero esperta, dimenticavo chi ero e su quell’oblio fondavo l’impianto di una personalità diversa. Credo che ciò dipendesse dalla difficoltà a convincermi di andarti bene com’ero.

Non mi appagava pensarmi come una figura qualunque, adagiata nel contesto artefatto di un idillio vagheggiato e creato a forza. Vivevo la tua compagnia contemporaneamente provando a vivere te, tanto per egoismo e sentimento, quanto per cacciare la paura di essere per te davvero una figura qualunque e facilmente rimpiazzabile. Sublimavo, per questo, ogni emozione che mi davi, presagendo quanto poco sublime sarebbe stato farne a meno e, benché sapessi che erano vani tutti i miei tentativi di costringerti (costringerci) a considerare un momento un’eternità e l’eternità solo un momento strappato alla totalità del tempo che avrei voluto ci regalassimo, io stringevo tutti i nodi che mi era possibile stringere, ignara che presto per sciogliere quei nodi io mi sarei arrovellata, mentre tu, con un paio di forbici ben affilate, avresti semplicemente dato un taglio.

Hai mai avuto una spiegazione per tutto questo?

Non te lo chiedevo, perché non volevo parlassi. La riservatezza delle tue sensazioni garantiva quiete alle mie preoccupazioni e poi mi era più facile puntare tutto scommettendo sul silenzio, quando solo le civette potevano gufarmi contro.

Minimamente silenziosa era invece la protesta che la mia volontà montava contro se stessa  nel riconoscerti quale espressione di un desiderio che non avevo espresso. In risposta, la capacità di giudizio mi nutriva fino alla nausea delle conseguenze che tutto ciò comportava. Da qualunque punto di vista ti considerassi, infatti, erano evidenti le stonature, le incongruenze, ma era appetibile il modo in cui mi faceva sentire appoggiarmi al tuo petto e nient’altro contava.

Nascosti o sotto il sole, in solitudine o altrove, ti cercavo quando non mi restava niente da chiedere al giorno e tu ti lasciavi trovare quando non avevi niente di meglio da fare. Diametralmente opposti anche nelle reazioni , a me bastavano tre minuti per provare il morboso desiderio di mangiarti le labbra e tu aspettavi sempre tre ore prima di deciderti a spogliarmi. E’difficile stabilire se nella nostra mancanza di sincronia, fosse più rilevante il fatto che tu mi piacessi troppo o che io ti piacessi troppo poco.

Al confronto con i tuoi, i miei pensieri erano paragonabili a quelli di una playmate in cerca di occupazione e ti avrebbero fatto arrossire anche le punte dei capelli se avessi osato o potuto scavare sotto la superficie sottile del mio apparente contegno. Tu, però, non scavavi e nemmeno provavi  a immaginare le scene dei sogni che, sveglia, lasciavo fraintesi, quasi fossero squarci di inedite esperienze, che da un momento all’altro avrebbero potuto sconvolgermi.

Non c’era, purtroppo, alcunché di inedito in ciò che di seguito si verificava. Mi faceva male fissare  il tuo volto, ma lo fissavo lo stesso, mi faceva male sentire il mio profumo ai fiori di campo, ma lo sentivo lo stesso.

Avrei voluto tu riuscissi a concentrarti sulla fittizia piacevolezza di una situazione che era caduca e irreale quasi quanto reali erano i lividi che ci procuravamo osteggiando la leva del cambio, appagando la mia brama, per versi perversa, per altri infantile, di elevare al rango di mia favola personale la tua storiella da niente. Eppure, in qualche modo, cedevi all’accurato abbindolamento perpetrato ai tuoi danni e diventavano palesi le tue voglie nascoste, la tua pelle felpata, la mia gioia a goderne. Riuscivo a sentirti mio fin dentro le ossa e promettevo a me stessa che quello era amore, nient’altro che amore.

Sapresti trovare un altro nome?

La tua arte di non avere arte, esplicitata dai continui sbadigli, mi faceva sentire un’artista talentuosa,  sprovveduta, ma viva. I tuoi vuoti mi riempivano di contenuti e ti avrei dimostrato il mio valore in mille disegni e mille racconti, se per un solo istante avessi dato credito alla mia fantasia. Ma era una fantasia, cui non credevi, lo stesso ritrovarci con le braccia intrecciate e le pance appiattite, con le schiene stropicciate dalla tappezzeria dei sedili e i piedi scalzi, negli abitacoli che s’improvvisavano alcove dai vetri appannati coi nostri respiri aromatizzati alla birra.

Ricordi ancora quel sapore?

Avevi una strana risata, perciò non facevo battute e rimanevo seria anche quando, con un’espressione falsamente assorta, sorvolavo l’arco preciso dei tuoi denti per osservarti dritto in gola e capire quanto la tua anima mentiva, quando finalmente mi dicevi che ero tutto quello che volevi. Poi accendevo un’altra sigaretta.

Al di là del tabacco da ardere e della nicotina da aspirare, mi sembrava il modo più opportuno per scandire le pause, quando le ombre ci disegnavano addosso nuovi vestiti e la nudità smetteva di essere un pretesto per rotolarci nel buio. Meccanicamente ripristinavo l’ipnotico movimento dalle cosce alle labbra. Nel buio più luminoso rasentavi l’ideale perfetto dell’uomo perfetto, ma la sigaretta si consumava in fretta, la buttavo fuori dal finestrino e, prima che la brace smettesse di brillare, la nudità tornava ad essere  un buon pretesto per rotolarci ancora.

Sarebbe bastato poco per dare un senso a quel fremito dei sensi, anche solo il coraggio, ma i tuoi peli sullo stomaco non erano abbastanza perché riuscissimo ad andare oltre. L’unico gaudio da percezione immensa scaturiva dalla misurazione delle differenze, non quantificabile in cifra, ma senza dubbio evidente nella distanza tra i nostri corpi, che prima di ogni contatto elettrizzava la mia pelle.

Ma hai mai conosciuto una passione più intensa?

Una ciocca di capelli biondi scivolava sulla mia fronte e rendeva il mio sguardo più sexy, perché mi costringeva a tenere abbassate le palpebre, quando la tua ansia da non prestazione mal si distingueva dalle mie smanie di manutenzione per un corpo che sotto le tue mani sembrava incendiarsi.

La pressione saliva e, pur non sopportando stare sotto pressione, col senno di poi mi tocca ammettere che non c’è niente di più pressante del non subire alcuna pressione. La gravità non incide sul peso che assume una storia d’amore, considerando che più del tuo corpo pesava il disamore e più del mio corpo adesso pesa il mio rancore.

Tu adoravi le mie gambe, io annusavo le tue braccia e nel farlo pensavo con rammarico al tempo sufficiente che mai avrei avuto per analizzare ogni tua singola cellula. E tempo sufficiente non avrei mai avuto, nemmeno perché quelle notti smettessero di sembrarmi tanto corte.

Io per prima mi tiravo su di scatto, fulminea, e raccoglievo i pezzi che avevo sparso nell’abitacolo. L’inventario bislacco, cavato a forza dalla memoria fallace, includeva anche un paio di calze appallottolate e nascoste sotto il sedile di guida. Era difficile trovarle, ma ci riuscivo e, quando le infilavo, dopo averne prima vagliato l’integrità, mi sentivo come se stessi impacchettando e preservando in vista di futuri e nuovi slanci, l’unica parte di me di cui ti importasse qualcosa. Nel ricompormi mi sentivo a pezzi. Sbrindellava l’integrità della mia coscienza, accorgermi che tu, meglio di me, intuivi che non c’è disaccordo peggiore del non trovare accordo in un’emozione comune. Di questa intuizione, senza farne vanto, avevi fatto forza, relegandomi nell’angolo proprio di una supplice astante, che sa di non avere, ma che comunque chiede.

Non mi chiedevi di restare e ti eclissavi, trascinandoti dietro le stelle più belle. Lo sguardo, più diretto ma ostile, era come di chi volesse costringermi a tornare troppo presto a casa. Io mi aggrappavo ad ogni possibile corrimano per non inciampare o addirittura svenire al pensiero di perderti, per poi realizzare che, se fossi caduta, avresti forse proteso una mano a stringere la mia. Ma nessun’unghia mi ha mai graffiato il palmo. Solo ferro grezzo e polvere raccolta sulla parete sporca. Dopo l’ultimo gradino, un corridoio si snodava a dorso di serpente. La porta, inevitabilmente blindata, era chiusa dal di dentro e non avevo le chiavi. Non aprivi. Non hai mai aperto, per quanto forte io abbia bussato.

Il tuo cuore era un ostello che solo saltuariamente avrebbe potuto alloggiarmi.