Le coccinelle volano


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Promesse 

Ieri, dopo mesi di campagna elettorale e due turni di votazione, si è deciso chi sarà il nuovo sindaco di Belo Horizonte. 

Vivendo da poco in questa città, che mi è sempre sembrata perfetta così com’è, e, soprattutto, non avendo diritto di voto, non mi sono interessata granché a queste elezioni. 

So che il candidato vincitore è un personaggio “nuovo” alla politica, imprenditore edile, conosciuto, in particolare, per essere stato presidente dell’Atletico Mineiro, squadra calcistica di Belo Horizonte. (Belo Horizonte ha tre squadre di calcio: l’Atletico, il Cruzeiro e l’America. Mi capita spesso che mi chiedano per quale delle tre io simpatizzi. L’Atletico Mineiro ha la divisa a strisce bianco-nere. L’America ha la divisa a strisce verde-nere.Il Cruzeiro è azzurro. Da tifosa del Napoli, non mi è stato difficile scegliere da che parte stare.)

Stamani, sul quotidiano Metro BH, oltre a celebrare l’elezione del nuovo sindaco, a pagina 03, riassumevano in sedici punti le sue promesse elettorali, incastonate in un apposito quadrante sormontato dalla scritta: ritaglia, conserva ed esigi.

Ecco, dovrebbe funzionare così per tutte le promesse.  Stamparle, ritagliarle, conservarle e pretendere che siano esaudite. 


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L’occhio di vetro di mio nonno 

Mi è sempre piaciuto il sapore delle lacrime. I miei dolori duravano fintanto che una lacrima raggiungesse la mia bocca. Quando passavo la lingua e sentivo il sale, dimenticavo il dolore.  Le lacrime salavano la mia sofferenza con il loro mistero.

Credo che le lacrime siano piene di cose da dire. Abitano dentro di noi e alleviano i dolori che pure abitano dentro di noi. Non so perché non riescono a curare il male prima che il male faccia male. Ma basta parlare di lacrime. Piangere stanca! Dopo molte lacrime è necessario dormire un lungo sonno. 

Io adesso non voglio dormire. Le mie tristezze sono mature. Solo le tristezze acerbe, verdi, hanno bisogno di acqua per crescere. Non so di che colore siano le tristezze mature. Devono essere trasparenti.

Bartolomeu Campos De Queirós, O olho de vidro do meu avô 


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A testa alta 

Le disse che era carina. Lo disse con un tono piatto, come se, enumerando mentalmente una lista di probabili pregi, avesse deciso di metterla a parte di quel dettaglio. Un dettaglio di cui sembrava essersi accorto solo in quel momento,  ma senza trasporto. 

Piena estate, il tramonto trascinato ben oltre le otto di sera. Gli ultimi raggi di sole incorniciavano le voluttuosità dei cornicioni, in scatti di luce non scritta al confine tra i tetti ed il cielo tranquillo che abbracciava Napoli.

Erano alla quinta uscita ed erano già stati a letto insieme. 

Carmela dava, perciò, per scontato il fatto di piacergli, sebbene, nel mentre lui pronunciava quelle parole (Sei carina), a mo’ di risposta distratta ad una domanda che  egli stesso si era rivolto, si stesse rendendo conto che non le aveva mai fatto complimenti. 

Per alcune donne, i complimenti sono necessari, pane e respiro di cui si nutre il sentimento. 

Forse che lei, nonostante tutto, ancora non era abbastanza donna? 

Carmela si portò il tovagliolo alle labbra, per ripulirsi di uno sbaffo, solo immaginato, di gelato alla fragola e pesca. Un modo qualunque per tenersi impegnata una mano, mentre con l’altra reggeva il cono.

IIl suo amico Raffaele era stato il primo a farle notare quanto poco fosse femmina. Senza offenderla, ma senza nemmeno lusingarla, una volta le  aveva confessato che per lui non era una ragazza, una di quelle per cui si sarebbe girato per strada e a cui avrebbe volentieri toccato il culo. Per lui, poteva persino non avercelo il culo, quasi fosse una persona senza genere né forme, una compagnia asessuata. 

Gennaro era più o meno dello stesso avviso.- Tu cammini sempre a testa bassa, bella mia!- le disse una volta, mentre, al buio, nell’abitacolo in cui si era appena consumato l’amplesso, con le braccia, lei provava a coprirsi al meglio il seno nudo. 

– Che vuoi dire?- gli chiese lei. 

– Ma guardati, Carmela!- replicò Gennaro. – Sembri una di quelle attrici nei film americani, che prima fanno le zuzzimme e poi si fingono vergognose e si coprono alla bell’e meglio. Scopriti, fatti guardare, che tanto non mi devi nascondere più niente.

Carmela tirò giù le braccia e, offrendosi completamente nuda agli occhi di lui, gli chiese- Così va meglio? 

– Mo’ sì!- esclamò Gennaro. – Devi capire che a noi maschi ci piacciono le femmine che camminano a testa alta, quelle che si credono e si spacciano per belle pure quando sono dei cessi. Prendi Caterina.  Mica è bella?  Quella confronto a te è nu bidet. Ma hai visto quanti maschi tiene appresso, quanti se la vorrebbero fare?

– Pure tu?

– Ma manco pe’ pensiero. A me mi piaci tu. Però Caterina è una che ci sa fare, che non ha vergogna, che si atteggia come se la tenesse solo lei e su certi maschi ‘sta cosa fa effetto. Fosse anche solo per vedere quella che tiene di speciale per atteggiarsi tanto. 

– E io che devo fare? 

– Niente, Carme’. Ci penso io a farti sentire una femmina vera.

Questo succedeva molti anni fa, sul finire dell’adolescenza, a ridosso di un’età adulta che, invece di fortificarle, avrebbe scardinato tutte le sue certezze.

Intanto, pure il gelato era finito e buttò via il tovagliolo, ormai inservibile.

Le aveva detto che era carina, dopodichè non aveva aggiunto altro. Per un po’, Carmela aveva atteso un’altra frase, almeno una. Aveva persino pensato di dire qualcosa lei, tanto si sentiva a disagio di fronte a quell’affermazione cui era seguito il silenzio. Alla fine, si era concentrata esclusivamente sul gelato. 

Adesso che era giunto il momento di andare, proprio quando lui le tendeva la mano perché gli concedesse la sua per passeggiare insieme, Carmela lo fissò . 

– Secondo te, io cammino a testa troppo bassa?- gli chiese. 

– In che senso? 

– Niente. Fai finta che non abbia detto niente. Ah, solo per la cronaca…Io non sono carina, io sono bellissima. 

E gli prese la mano e si avviarono verso il parcheggio insieme. A testa alta. 


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Mezzo pieno 

Dovrei imparare dai finti deboli, dai sempiterni sconfortati, da quelli che vedono il bicchiere sempre mezzo vuoto.

Anzi, dovrei bermelo quel mezzo bicchiere, ma senza brindisi, che tanto, alla salute e a noi, mica basta un goccio per portarci fortuna?

E guardare alle difficoltà per quello che sono, senza sminuirle o ignorarle. Perché, vedi, io sono bravissima ad ignorare le difficoltà.  

Come quella faccenda del perdono. 

– Io non perdono. No, dai, non sorridere. 

– Sei tu che lo hai detto.

– Sì, ma non nel senso che hai inteso tu. Non perdono perché non mi ferisco. E quando non ti ferisci, quando tutto ti scivola addosso, quando i gesti degli altri, buoni cattivi eclatanti o stucchevoli, si classificano e annullano in una gamma indistinta di pura indifferenza, cosa c’entra il perdono? Non perdono, solo perché non ho mai avuto nulla da perdonare. 

– È impossibile. 

– Invece è così. 

– Mettiamo pure che sia così. Ricorda però che ciò che non perdoniamo agli altri è ciò che non perdoniamo a noi stessi.

Perdonare, perdonarsi, perdonarmi. 

Per riuscirci dovrei ammettere un torto, qualcosa che è andato storto, in quella linea che marca il legame tra me e gli altri, tra me e me stessa. Che poi magari è un laccio, come di catenina, e non importa quanta attenzione faccio, quando è sottile e si annoda e non si può districare senza il pericolo che si possa spezzare, e tanto vale sostituirlo, sceglierne un altro, cui affidare ciondoli a forma di cuore o fiore, sperando che duri, sperando sia più forte. Ha senso per alcuni, gli altri me li tengo, così come sono, che tanto non m’importa.

Il miglior dispetto è la non curanza e lo so che non va bene, che lo sporco non si nasconde sotto il tappeto perché poi riciccia, che le cose non dette vanno dette se no si ammuffano in gola e, alla lunga, quella muffa si espande fino all’anima.

E forse è per questo che io sono impermeabile. Che tutto va bene anche quando non va bene. Che non mi incazzo, ma mi infastidisco. E il fastidio non si perdona, ma si scusa e io, di scuse, so inventarne sempre un sacco.

Perché dovrei imparare da quelli a cui non va mai bene niente, da quelli che io sorrido e loro piangono comunque. Perché il bicchiere, pure a vederlo mezzo pieno, sempre mezzo resta e non basta ad ubriacarsi, tantomeno a dissetarsi. 


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Fabio 

Cerco un posto all’ombra per potermi riposare. Più che la fatica, mi affatica il caldo, questo sole che, a prestargli poca attenzione, mi ha già cotto le braccia. 

Trovo un muretto. Poco distante, un albero dai frutti che sembrano carrube, ma più piccole, più pesanti e più rumorose quando cadono a terra, ha una chioma sufficientemente grande per gettare un’ombra che mi dia un po’ di ristoro.

Mi siedo, stendo le gambe e mi guardo intorno senza però riuscire ad apprezzare granché dei dettagli della folla e dei colori che mi riempiono gli occhi. Anche i rumori, i suoni, i gorgoglii delle risate dei bambini,  le urla delle madri che rimbombano da un lato all’altro del parco, conservano una matrice confusa e indistinta. Non è solo stanchezza e non è solo la stanchezza di questo momento. Ormai mi capita sempre più spesso di prestare poca attenzione alle contingenze, per perdermi in un generico sentimento di percezioni che con i sensi ha poco in comune. Una distrazione non distratta che applico a giuste dosi quando ho bisogno di non sentirmi attratta da pensieri che, gira e rigira, fanno sempre lo stesso giro.

Con la coda dell’occhio, mentre punto lo sguardo a terra, come se con la forza del pensiero fossi in grado di ripulirmi le scarpe dalle macchie di erba e terra rossa, noto che si sta avvicinando un ragazzino. 

Fabio, che non si chiama così, ma che indossa una maglietta sul cui dorso, su sfondo giallo oro, a caratteri scuri, è scritto questo nome, mi fa un cenno spavaldo col mento. – Ciao.

– Ciao- gli rispondo, un po’ meno distratta.

Porta un pallone stretto sotto il braccio, ma sembra non avere alcuna voglia di giocare e si siede sul muretto che, perpendicolare a quello dove siedo io, forma un angolo non diverso dalle centinaia di altri angoli che dovunque, due muretti perpendicolari formano. Ma è uno spazio speciale o, sono io a volerlo tale, per una smania a riconoscere, in determinati momenti, anche nel più banale del luoghi, tracce di unicità e predestinazione. 

Rimaniamo così, a ignorarci e poi a fissarci e poi a ignorarci ancora.

Interrompo la monotonia, decidendo di fumare una sigaretta. Prendo il pacchetto. L’accendino è sempre il più difficile da rintracciare e resto con l’avambraccio infilato nella borsa, mentre la mano rimesta e fruga. Quando finalmente l’ho trovato e sto per appiccare la fiamma alla punta della sigaretta che, da un minuto, mi ciondola tra le labbra, scorgo lei.

Non avrà più di quattro anni, ma si muove a passo deciso, senza alcuna incertezza nell’andatura o nell’espressione. Raggiunge Fabio e gli si para di fronte.

– Mi posso sedere qui accanto a te?

Fabio fa un cenno d’assenso col mento, simile a quello con cui, pochi minuti prima, mi aveva salutata. Guarda dritto davanti a sé. La presenza della bambina non ha cambiato per nulla il suo atteggiamento. Sembra chiuso in un mondo da cui gli è difficile, per volontà o paura, venir fuori.

La bambina, però, attratta forse proprio dalla sua impassibilità, gli tiene gli occhi puntati addosso.

– Cosa fai nella vita?- gli chiede improvvisamente. – Lavori?

Fabio, senza mostrare particolare attenzione per quella domanda e continuando a guardare fisso davanti a sé, le risponde con estrema calma. – No, non lavoro.

Poi come se, dal nulla, gli fosse scattato qualcosa dentro, gli occhi accesi di vivo interesse, si gira a guardare la bambina.

– Non lavoro – le dice- Non vedi che sono un bambino anch’io? Ma appena sarò grande comincerò a lavorare. 

Lei lo ascolta, presa, mentre lui prosegue. 

– Voglio diventare ricco. Fare tanti soldi e avere una carta di credito. Voglio vestiti belli e una casa grande, molto grande. Magari con la piscina. Poi voglio una macchina, bella, e una moto e anche una bici. Forse comincerò anche a fumare, ma non ho ancora deciso. Ma, soprattutto, voglio andarmene lontano. Voglio viaggiare e visitare tutti i posti del mondo. E voglio essere felice.

La bambina continua ad ascoltarlo ammirata, ma Fabio, ormai, non ha più nulla da dire ed ha ripreso a guardare dritto davanti a sé.. 

Timidamente, ma con tutta la dolcezza di cui credo sia capace, lei lo guarda, seria, e gli chiede- E vuoi anche sposarmi quando sarai grande?

– Forse. – risponde Fabio.

Tacciono entrambi. Io spengo la mia sigaretta e faccio per allontanarmi. Li guardo un’ultima volta.

Senza alcuna insicurezza, stavolta insieme, spingono lo sguardo verso l’orizzonte. 


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I meccanismi della memoria 

Ci avevo sperato. Me ne resi conto quando le porte dell’ascensore si spalancarono ed io rimasi ferma, immobile, persa. C’era qualcosa, in quel movimento automatico, di battenti in acciaio che si dischiudevano per rivelare uno spazio claustrofobico di grigi accesi e specchi di metallo, che improvvisamente mi ricordava qualcos’altro. Mi ricordava una speranza vecchia, diversa, anzi, la fine di una speranza. Non la mia, perché già allora pensavo di non poterne più provare.

Era ottobre, come adesso, una mattina di sole. Avevo una borsa e uno zaino, ma nulla di pesante. Il treno era quasi vuoto, un sacco di spazio libero da occupare. Ero ripartita tante volte da quella stazione di quella città non mia. Eppure sentivo, sapevo, che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Scelsi quattro sedili in fila per due a caso, buttandoci altrettanto a caso la borsa, lo zaino e il mio sedere. Mi ero ripromessa di non voltarmi indietro e non lo feci. Poi, nel breve tempo che impiegai a rilassarmi per mettere ordine tra i ricordi di quelle ultime ventiquattro ore, mi sentii toccare una spalla.

Il treno tardava a ripartire, forse in attesa di una coincidenza. 

Era lui. Era rimasto lì, malgrado gli avessi chiesto il contrario. E adesso, con un ardire, che mai gli avevo visto e stentavo a riconoscegli, era salito sul treno, quasi in partenza, per darmi un ultimo bacio. 

Ricambiai, ma senza troppa convinzione. Un bacio freddo, distante, come se lui non fosse già più una persona vera, viva, calda, ma solo l’immagine che ne avrei conservato. 

Probabilmente ci abbracciammo (ma non posso giurarci), finché il fischio del controllore ci annunciò che era ora di andare. Ognuno per la sua strada, ognuno per la sua vita.

Lo guardai scendere dal treno e pararsi di fronte alle porte ancora aperte, come se, fino alla fine, volesse coltivarsi la possibilità di salire e venire via con me. Poi le porte si chiusero.

Durò giusto un attimo, un battito di palpebre, un lieve spasmo agli angoli della bocca, la mano destra rapidamente stretta a pugno e poi distesa. 

È così che si spegne una speranza, pensai guardandolo. 

Dopo di allora, non ci incontrammo più. Uno strano meccanismo della memoria, per lungo tempo, mi aveva messa al riparo dal ricordo di quegli ultimi momenti insieme. Il pensiero di lui riguardava sempre gli inizi, le parti salienti e centrali della nostra storia, ma mai il finale. I meccanismi della memoria sono, però, imperfetti come tutti gli altri meccanismi di chiusura che pensiamo perfetti e capita che, all’improvviso, qualcosa si inceppi, una vite salti, e tutto quello che c’era dentro esce fuori.

Il meccanismo che regolava il funzionamento dell’ascensore di fronte al quale quel ricordo mi aveva sorpresa, invece, continuava a funzionare correttamente, infatti le porte stavano per rinchiudersi. Dovetti spingermi molto forte per riuscire a smuovermi di pochi passi e salirci. 

Avvertivo un dolore intenso all’addome, una stretta, un crampo, una morsa che contemporaneamente mi stringeva e stritolava stomaco, milza e cuore. Non che i polmoni se la passassero meglio. Ogni respiro era una fatica, uno sforzo dovuto al fatto che, ad ogni sussulto buttavo fuori, sì,  aria, ma pure lacrime e singhiozzi. Un pianto silenzioso, sprigionato non semplicemente dagli occhi, ma che arrivava direttamente da dentro, da una parte più profonda e nascosta, forse la stessa in cui, senza successo, avevo nascosto la mia capacità di sperare.

È questo che si prova quando si esaurisce una speranza, pensai. 

Una decina di piani, le porte di acciaio di nuovo spalancate. 

Se non mi muovo, se non esco da questo ascensore, se non torno a casa, se mi dimentico del mondo, se nessuno più esistesse e mi venisse a cercare, se tutto questo non stesse capitando a me (perché?), se bastassero il coraggio e la forza o, meglio, l’ignoranza, se niente avesse senso e,  nonostante tutto, riuscissi a trovare un’utilità per questa insensatezza…

Ne venni fuori. Le porte si richiusero alle mie spalle. Con pochi passi mi ritrovai in strada. 

Era aprile, non come adesso, una mattina di piombo.


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Cuore speziato 

– Parlami delle emozioni, degli stati d’animo. Nel caso in cui stessi male, provassi dolore, quali parole dovrei usare?

È bella e giovane abbastanza perché le rughe nette, che una profonda tristezza le disegna sul viso, non passino inosservate. Intuisco, perciò, che la sua non è una domanda casuale, puramente didattica ed ho paura che, a sprecare troppo fiato, l’espressione le diventi più arcigna.

Il problema è che quelli che parlano portoghese non “sono” mai felici, ma “stanno” felici; non “sono” mai tristi, ma “stanno” tristi; non “hanno” mai mal di testa, ma “stanno” col mal di testa. Sembra una differenza irrilevante, ma non lo è.  Tra essere e stare, tra ser e estar, c’è un abisso fatto di tempi e modi, percezioni e disposizioni d’animo. 

Dire “sono felice”, significa che lo sono adesso, ma è come se lo fossi sempre e per sempre. Dire “sto felice”, invece, ne limita la portata, ridimensiona lo stato emotivo ad un effetto temporaneo e assolutamente effimero.

Come se noi italiani scommettessimo sempre sull’eternità delle nostre emozioni e limitassimo la caducità di stare soltanto allo star bene e allo star male. 

Le spiego tutto questo e sembra aver capito.

– E il male d’amore? Come si traduce coração quebrado? 

Ah, allora è questa la causa della tristezza! 

– Si dice ho il cuore a pezzi. Mi hai spezzato il cuore. Ho il cuore spezzato.

– Cuore speziato? 

Rido e scuoto la testa. – No, non è speziato, è spezzato. Ma speziato mi piace un sacco.  


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Il bianco e il nero 

​- Adesso tu ti aspetti una risposta, una soluzione. Ma non credo di potertela dare, non subito almeno. E ti spiego perché. 

Nel nostro mondo, esistono solo il bianco e il nero. Non c’è posto per altri colori. Non c’è posto per le sfumature. 

Sai com’è  il tuo problema? Il tuo problema non è bianco, ma non è nemmeno nero. Il tuo problema si pone nel mezzo, al limitare tra bianco e nero. Solo che, come ti ho spiegato, in questo mondo, non esistono vie di mezzo. È per questo che per alcuni il tuo problema è bianco e per altri è nero. Ma nessuno di loro ha ragione e nessuno ha torto. 

Hai idea di quanto tutto questo sia difficile? 

Di che colore è questo portapenne? Questo portapenne è come il tuo problema. Questo portapenne è grigio. Prova a uscire in strada, a fermare le persone e a imporre loro di dirti se per loro è bianco o è nero, escludendo l’opzione del grigio. I più scuoteranno la testa e si rifiuteranno di darti una risposta. 

Ma il tuo problema resta, a prescindere da quello che è il suo colore. E bisogna risolverlo. Chi lo vede bianco, ti consiglierà una soluzione. Chi lo vede nero, te ne consiglierà altre. Ma saranno soluzioni bianche per un problema grigio e soluzioni nere per un problema grigio. Quindi tutte soluzioni inadeguate, in alcuni casi futili e, in altri, troppo drastiche.

Il punto è: tu come lo vedi il tuo problema? Bianco o nero?

– Io? Io non ho nessun problema.