Le coccinelle volano


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La fioritura degli ipês

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Prima fioriscono quelli rossi, poi i rosa, i gialli e, alla fine, i bianchi. I bianchi sono i più rari. C’è un esemplare giovanissimo nella strada in cui abito. E’ recintato e, da un ramo, penzola un cartello che recita “Sono un ipê bianco. Guarda quanto sono bello!”
Gli ipês sono alberi strani. Quando la temperatura scende, un brivido scuote la loro corteccia come un presagio di morte. Temono manchi poco, temono sia la fine. Per questo, fioriscono.

– Ti piacciono gli ipês?
Fu il primo sì che gli dissi. Mi ero incantata con il naso in aria, a seguire la traiettoria di quelle nuvole rosa scosse dal vento. Piccoli petali, come cuori, si staccavano dai rami, spole romantiche tra cielo grigio e asfalto nero, in un pomeriggio d’inverno. Una pagina di quaderno che avrei riempito, senza saperlo.

Gli ipês sono alberi ribelli, fanno le cose al contrario. Sfidano le stagioni e la sorte. Si riempiono di colori, quando tutti gli altri sono vestiti a lutto.

Avrei potuto coprirmi il cuore anch’io, basando, sulla precarietà di quel momento, la scelta di trascurare il tramonto e rimandare ad un’alba successiva, di maggiore certezza, la possibilità di scoprire quello che avevamo da vivere. Come quegli alberi che, per paura di bruciarsi, aspettano il conforto della primavera prima di fiorire.
Ma sullo sfondo c’erano gli ipês.

Gli ipês sono alberi folli. Non aspettano la primavera. Gli ipês fanno l’amore in inverno.

– Voglio fare con te quello che l’inverno fa con gli ipês.


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Emerson

Lo incrocio durante il primo giro del lago. Ha un sorriso aperto, bello. Due cagnolini gli saltellano intorno. Gli sorrido anch’io. Mi saluta, lo saluto e riprendiamo a passeggiare, ciascuno nella propria direzione. Lo rivedo alla fine del giro. È inginocchiato, stringe al petto uno dei suoi cagnolini.

– Che è successo?- gli chiedo.

– Si è ferito. Guarda. Dev’essersi graffiato, grattandosi. Ha le unghie lunghe. Io vorrei tagliargliele, ma non so come si fa.

Mi inginocchio accanto a lui per guardare. Il cucciolo ha una macchia di sangue fresco sulla testa. Lui lo accarezza, lo abbraccia, spera forse così di tirargli via il dolore. L’altro cagnetto resta in disparte, intimorito dalla mia presenza.

– Vieni.- lo esorto- Vieni, piccolo.- E allargo le braccia affinché si convinca.

Si avvicina. È una femminuccia. Quando comincio ad accarezzarla, gli occhi le si riempiono di lacrime.

– Chiquinha, lei è Chiquinha.

La cagnetta scondinzola felice sotto le mie carezze.

– Sono belli, eh? Non c’è nessuno che se ne prenda cura. Solo io. Ma io sono in libertà condizionale. 

Ignoro l’ultima frase. Non voglio che si senta a disagio. – Non hai una famiglia a cui lasciarli quando non ci sei?

– No. Non ho mai avuto una famiglia. Mia madre rimase incinta che era ancora una bambina. Quando nacqui, se ne andò e mi lasciò con mio nonno. Poi mi abbandonò anche mio nonno. Sono un figlio bastardo. 

– Non dire così- gli dico. 

– Ma è quello che sono.

– Ma di sicuro non sei solo questo.

– È vero. A me piace l’arte, mi piace la natura, mi piacciono i cani e mi piace suonare . Mi piace tanto suonare, sai? Adoro la musica, a volte provo a fare qualcosa, ma nessuno mi appoggia. Tutti mi prendono in giro, ridono di me, dicono che sono un pazzo.

– Perché?- gli chiedo.- Perché dicono questo di te?

– Perché non voglio più commettere crimini. Non voglio più saperne. È per questo che, nella favela, sono tutti contro di me. La mia comunità mi odia. Ma io non ci riesco, io sono una persona buona. 

– Come ti chiami?

– Emerson.

– Piacere di conoscerti, Emerson.- E gli allungo la mano.

Lui me la stringe, è commosso. Poi a sorpresa, come un gentiluomo d’altri tempi, me la bacia.

– Andrà tutto bene, Emerson.- Gli dico. 

E accarezzando Chiquinha, in silenzio, le chiedo di continuare a prendersi cura di lui.


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Elefante

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L’unico pregio, se proprio può dirsi tale, nel sentirsi come un elefante, risiede nella liberalità con cui si può scegliere se esibirsi o meno in qualche simpatico numero da circo.
Qualcuno che passa e si ferma a guardare purtroppo c’è sempre (gli elefanti hanno parecchie difficoltà a nascondersi) e, se l’elefante è in vena, è probabile che ci scappi un sorriso.
Ma quando l’elefante è stanco o non ha voglia o magari si aspetta che semplicemente lo si contempli per poi passare a rompere le scatole alle scimmie, mica lo si può prendere a calci per spronarlo? Un elefante non si smuove.

Bisognerebbe imparare ad accettarlo e, magari, tornarsene a casa a coccolare il cane.


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Io non ho una barca, disse l’albero

 

Lasciati per dopo quello che ormai non hai bisogno di aspettare e tutto quello che non sei riuscita ad aggiustare per colpa del dopo. Non c’è modo, no. Alla fine, ci aspettiamo sempre il peggio, alla fine, smettiamo sempre di prenderci cura di ciò che abbiamo tra le mani. 

Perciò.

Lasciati per dopo quello che ormai non hai più bisogno di lasciare, cambiando posto alle cose di sempre, la certa cosa certa a farsi, e dici che volevi solo riposarti da chi tu stessa scegliesti di essere. Senza volere. È sempre senza volere.

Queste parole, questa canzone, questo tramonto.

Rio.


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Vetro

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E’ per quelle cose che non saprà mai o per una soltanto che vorrebbe sapere, che a volte si chiude a riccio, spinosa e intrattabile quanto una scheggia di vetro non levigata da alcuna corrente.
E proprio oltre un vetro, per l’ultima volta si incanta ad inseguire i pensieri dell’uomo più vecchio che le siede accanto.

La croce ed il rosario appesi al collo sintetizzano il richiamo ad una fede assente, stretto sulla pelle come un nodo di cappio, che asfissia e lascia indolente la pretesa dell’anima di tornare pura e indenne nei confronti di quelle cose che feriscono solo perché “beati i miseri, ché di loro sarà il regno dei cieli”.
Ciononostante prova ad arrivare al cielo anche lei, con gli occhi che le si inerpicano lungo il tortuoso sentiero disegnato dalle gocce di pioggia, mentre compiono un inverso free climbing sul finestrino del treno.
Le residue luci della sera e i primi bagliori della notte, però, le respingono lo sguardo a livelli più terreni.
Capita che la suola consunta delle scarpe, abbracciata al linoleum come un’amante disfatta, le rimetta alla coscienza l’orrore dello smalto rosso spalmato in malo modo sulle unghie che non ha mai smesso di mangiare e che l’ombrello a quadretti faccia quadrato con la tempesta che presto le bagnerà i capelli.
L’accurata descrizione delle condizioni meteorologiche, del resto, condiziona l’andamento di una storia mediante le associazioni simpatetiche tra gli umori atmosferici e gli umori sentimentali.
Chiude l’agenda e smette di prendere appunti.
La promessa che la prossima storia cominci col sole non sarà più un inganno.


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Come girasoli

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C’era qualcosa nel loro essere estremamente simili, che li spingeva a cercare di essere diversi. Un’impossibilità di condivisione, comunicazione, derivante dal considerarsi specchio l’uno dell’altro e, per questo, capaci di rivelarsi le reciproche bellezze, ma soprattutto le imperfezioni, quando si sfioravano e le loro anime si fondevano in un unico fragile stelo. E allora si scansavano, si voltavano, da quella parte dove il sole li colpiva con raggi che avrebbero raggelato la loro unità in un’immagine nuova e inedita.

Indipendenti mai, ma non per questo schiavi, si rincorrevano girandosi in tondo.


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Partire è un po’ morire 

Avevo una cugina più grande. In realtà,  ne avevo più di una. In realtà, ne ho ancora parecchie di cugine più grandi di me e non capisco perché mi viene da usare l’imperfetto. Comunque sia, questa cugina più grande di me, che non vedo e non sento da anni (e magari proprio per questo il nostro rapporto mi sembra imperfetto), aveva un diario. In realtà, ne aveva tanti di diari e giuro che questo è l’ultimo in realtà perché se no, ad essere realista, il post non finisce più. 

Sul diario di questa mia cugina più grande c’era scritta una frase. La frase diceva “partire è un po’ morire”. 

Avevo una decina d’anni quando la lessi. 

– Che significa? 

– Che quando si parte si muore un po’. 

– Non capisco. 

– Non c’è niente da capire. Partire è un po’ morire. 

– Io, però, quando parto per le vacanze non mi sento un poco morta, anzi, mi sento più viva.

– Credimi. Quando si parte, si muore sempre. 

Dall’alto della sua grandezza, mia cugina più grande sapeva essere molto perentoria e saggia, per cui smisi di contraddirla ed accettai per buona la sua sentenza. 

Non sono una viaggiatrice. Anche se da tempo ho superato l’associazione delle partenze alla morte, che da quella conversazione mi era derivata (con tutte le volte che sono partita, sarei un po’ morta da un pezzo).

Ho difficoltà a sentirmi a casa e in virtù di questo mi sento a casa ovunque. Ma non credo che la facilità con cui chiudo tutte le mie cose in due valigie e vado via, faccia di me una viaggiatrice. 

Eppure, questo tag di svirgola mi ha fatto realizzare che di viaggi ne ho fatti parecchi. Probabilmente, più numerosi e più lunghi, in termini di distanza, di quanto mi sarei mai aspettata e augurata per me.

Sì, perché questo è un tag, creato da Iris & Periplo Blog. Anche se non ho utilizzato la foto che c’era sopra, che potrete rintracciare cercando il tag #wanderlusttag.

Di seguito, le mie risposte alle 10 domande previste e no, non nominerò almeno 3 blog. Ma come al solito, chiunque voglia partecipare è libero di aderire. 

1. Per prima cosa: dove siete stati finora?

Sono stata in Italia, per circa trentaquattro anni, ma non per vacanza, cioè non sempre, bensì perché ci sono nata. Nel frattempo che stavo in Italia, sono stata spedita da mia madre per cinque giorni in Svizzera, poi per due anni di fila ho trascorso il ferragosto a Budapest, poi sono stata in Inghilterra per la nascita di mia nipote, poi sono venuta una settimana in Brasile, poi sono stata in Indonesia e negli Emirati Arabi, poi sono andata a congelarmi qualche giorno a Berlino e alla fine mi sono trasferita in Brasile. Dal Brasile, sono andata in Argentina e in Paraguay, sono tornata in Italia, sono riandata in Inghilterra e poi nuovamente in Brasile. 

2. Qual è la città o paese più bello dove siete stati?

Ho avuto la fortuna di visitare luoghi incantevoli, ma le cascate di Iguaçu sono una vera meraviglia. 

3. Siete stati più di una volta nello stesso posto o preferite visitare ogni volta un posto nuovo?

Mi piace scoprire posti nuovi, ma torno con piacere nei luoghi in cui mi sono sentita felice.

4. Consigliatemi il miglior locale (ovunque nel mondo) dove siete stati a mangiare.

Bacon Paradise, il paradiso del fat food di Belo Horizonte. Ma se siete vegani e non mangiate bacon, allora il mio consiglio è un posto qualunque nell’isola di Bali. Che tanto si mangia quasi sempre riso e niente. Buono, ma comunque riso e niente. 

5. Siete per le vacanza al mare, in montagna o per le città?

Sono per le vacanze. Mare, città, montagna, lago, deserto. Dovunque. 

6. Qual è il souvenir che non mancate mai di portare a casa?

Cerco sempre di riportarmi qualcosa da mangiare, a patto che non crei problemi in dogana. Insieme a magneti, penne, tazze e tantissima chincaglieria.

7. Nella vostra valigia cosa non manca mai?

Nella mia valigia non manca mai niente. Anzi, dovrei imparare a viaggiare più leggera. 

8. In quale luogo già visitato ritornereste volentieri?

Tornerei di nuovo a Budapest, al Sziget, se tornassi ad avere di nuovo venticinque anni.

9. Ed invece in quale posto già visitato non tornereste?

 In Svizzera, a Natale, ad Einsiedeln. Mai più. 

10. La meta del vostro prossimo viaggio?

Più che ad un prossimo viaggio, mi appresto ad un prossimo ritorno di tre settimane. In Italia.


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Tirolese 

È difficile prevedere o intuire cosa c’è dall’altra parte. Per scoprirlo bisogna muoversi, scegliere, ma non è così semplice. 

Stare fermi è confortevole. Ti dà l’illusione che tutto possa restare uguale, anche se uguale significa male. 

La soluzione è una libertà che si snoda appesa al filo di una tirolese.

È sufficiente un passo.

Nemmeno. 

Basterebbe spingere un po’ più avanti un piede, con la punta saggiare l’aria, con la suola sperimentare il vuoto e, fingendo di volerlo calpestare, lasciarsi andare. Muoversi come saltare, scivolare.

E volare.

Persino i bambini lo sanno fare. 


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Allenarmi tutti i giorni 

José ha sessantacinque anni. Me lo dice lui, perché, fosse stato per me, gliene avrei dati cinquanta portati male, cinquantacinque al massimo.

Mi capita spesso. 

– Quanti anni pensi che abbia? 

– Non credo che arrivi a sessanta.

– Ne ho settantadue.

Qui un sacco di persone mostrano una quindicina di anni in meno.

Ho conosciuto José al parchetto vicino casa. Da due settimane ho preso ad allenarmi tutti i giorni e, per quanto “allenarmi” e “tutti i giorni” siano espressioni avulse al mio frasario, tanto più se combinate insieme, ancora sto reggendo. 

Ero intenta a scalare un attrezzo quando José mi si è avvicinato. 

– Ti piacciono le prugne?

Io avevo le cuffie nelle orecchie e il sangue in testa, perciò ho capito una cosa tipo “ti piace fare a pugni?”

L’ho guardato con l’espressione del e mo’ che vuoi che ti dica, ho storto un po’ le labbra e ho mormorato un sì affannato, sperando che l’allenamento del giorno non includesse una sessione di pugilato con un perfetto estraneo.

José deve aver notato la mia perplessità ed ha ripetuto- Ti piacciono le prugne?

A quel punto mi sono illuminata. 

– Vedi, quella è una pianta di prugne. E questo un albero di manghi. Vieni, te li mostro. 

Sono scesa dell’attrezzo e con due passi mi sono ritrovata sono un albero gravido di frutti acerbi.

Abbiamo cominciato a chiacchierare di flora e fauna, delle differenze tra il Brasile e il continente europeo. 

All’inizio, sentito il mio accento, José ha pensato fossi argentina e pure questa è una cosa che mi capita spesso. Fortuna che qui non se lo caga nessuno, se no mi verrebbe il dubbio che sto cominciando a somigliare ad Higuain. 

Dopo un po’ che chiacchieriamo, José mi chiede – Fai meditazione? 

– No.- rispondo. 

– Strano. Parli come una che fa meditazione. 

A parte che stavo ancora mezza affannata dagli esercizi e ci sta che tra una frase e l’altra, alla ricerca della parola giusta, qualche ohmmm ohmmm mi sia partito. Però non medito. Cioè, ogni tanto medito qualche vendetta. Ma solo quello, nient’altro. 

– Allora adesso ti mostro qualche esercizio.- e dicendo questo, José mi invita a prendere una posizione da guerriero maori, con i piedi in linea con le spalle, le ginocchia rivolte verso l’esterno e le mani unite a cuore sull’ombelico.

– Adesso respira con la pancia. 

E io respiro. 

– No, non così.  Stai respirando con il diaframma. Respira con la pancia. 

Respiro un’altra volta. Un respiro che non è molto diverso dal precedente, ma pare sia quello giusto. 

– Brava, continua così. 

E io continuo. 

– Ti senti più rilassata? Più serena?

In realtà, mi sento tale e quale a prima e forse un po’ più scema a causa della posizione, ma non vorrei si offendesse, perciò muovo entusiasticamente la testa ad indicargli di sì. 

– Adesso che hai imparato, fai questo esercizio tutti i giorni, ché ti sentirai benissimo.

Gli prometto di farlo e torniamo entrambi agli attrezzi.

Il parchetto è frequentato quasi esclusivamente da pensionati. È incredibile in quanti siano più in forma e molto più energici di me. Una signora in particolare, che ho scelto come modello e come competitor, ogni giorno puntualmente mi batte sulla resistenza.  Credo abbia un’ottantina d’anni, ma, considerato il modo in cui confondo sempre l’età, ne avrà sicuramente un centinaio. 

Rimetto le cuffie alle orecchie e riprendo ad allenarmi. 

Ormai faccio questo tutte le mattine, da due settimane. Anche se fa un caldo torrido. Anche se “Ma ci sono quaranta gradi! Così ti muori!” cui replicò ” Sì,  ma almeno mi muoio magra!”. Anche se non mi sto dimagrendo affatto, anzi sembra che i jeans mi stiano addirittura più stretti.

L’esercizio che mi ha insegnato José non l’ho più fatto. Ma, considerato che è da quella volta che non l’ho più visto, non credo che faccia così bene.


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Das Geschenk

A volte non capisco. Non capisco il bene e, a maggior ragione, non capisco il male.

Ma se c’è una cosa che ho capito è che non sempre è necessario capire. 

Come le canzoni degli Sportfreunde Stiller. Me ne sto qui ad ascoltarle e ci pure provo a tradurre i testi con Google e, magari, riesco persino ad apprezzare il lirismo ermetico degli infiniti italiani abbinati ai soggetti in tedesco. Ma non le capisco. 

Questo però non le rende meno belle, o meno brutte, a seconda dei punti di vista. 

L’utilità del capire, probabilmente, ha il suo limite nelle sensazioni immediate di piacere e dispiacere.

Mi piace ma non so perché. Mi dispiace ma non so che fare. Quand’è così, a cosa serve capire?

Ricordo che una volta un’amica di mia madre, durante un discorso molto serio, tirò fuori una perla che costrinse me e mio fratello a nasconderci sotto il tavolo, per evitarle l’indelicatezza di riderle spudoratamente in faccia. 

“Credetemi, io sono una persona molto capiente!”

E, chissà forse lo sono anch’io, ma non nel senso che erroneamente intendeva lei, ossia capiente perché capisco. L’ho già detto che non capisco quasi mai niente. Io sono capiente nel senso che so contenere, serbare, metabolizzare e archiviare un sacco di cose. E quando non ci riesco, metto su gli Sportfreunde Stiller. 

Questa si intitola “il dono” e, pure se non ho capito molto altro, penso sia una delle canzoni più belle ascoltate di recente.